QUANDO IL COLORE DIVENTA DONO
In fatto di pittura, io sono come quei tifosi che non perdono una
partita, ricordano tutte le date, e sanno tutto dei grandi campioni, ma non
saprebbero tirare un calcio a un pallone. Non so disegnare neanche il
profilo di una palma sul mare, ma adoro la pittura, inseguo le mostre, amo i
grandi pittori, e invidia di tutto cuore la felicità di dipingere che
talvolta affiora come un grido dall’immagine dipinta.
Fu questa felicità a colpirmi, quando vidi per la prima volta i lavori di
Carlo ahiaberta, e a fare di me una sua costante seguace e, in piccolo,
anche una sua collezionista.
E’ una qualità che non ha molto a che fare con la tecnica, strettamente
intesa; si vale della tecnica, si appoggia, per così dire, al talento
compositivo e alla sensibilità cromatica, ma va al di là. Penso che attinga
al più profondo della personalità, a quella zona interiore che ebbe diversi
nomi nel corso dei secoli e che noi ora siamo abituati a chiamare inconscio.
Ciò che si deposita qui, in questa terra segreta dove maturano lentamente le
nostre esperienze, forma un ricco impasto vitale, quasi un humus del quale
ci nutriamo senza saperlo; ed è un dono speciale degli artisti elaborarlo e
rendercelo disponibile, come un inizio di dialogo, attraverso le loro opere.
Quando questo accade, l’oggetto d’arte, qualunque esso sia, poesia o pittura
o scultura o musica, parla direttamente all’inconscio di chi guarda o
ascolta, e crea un miracoloso ponte di comprensione al di là delle parole.
Io “so” che Carla è brava, perché me lo dicono gli esperti; ma “sento” da me
quando riesce a dirmi qualcosa di più. E certo lo sente anche lei. In
questo, io credo, consiste la vera felicità di un artista.
Carla
si ispira spesso al Lago Maggiore, specialmente per i suoi acquerelli.
Frequento questo Lago da una vita; ho imparato a conoscere le sue luci
cangianti, le sue distese di seta chiara, i suoi momenti luminosi, e anche
le sue giornate opache dove vibra appena il ricordo dell’estate. Col tempo,
la mia conoscenza del Lago è diventata attaccamento e bisogno: mi manca, se
ne resto lontana troppo a lungo. Mi mancano i suoi cieli perlacei, i profili
precisi del Pedum, della Zeda, dei lontani monti svizzeri, lo spazio intorno
alla barca o al traghetto quando ci si trova a metà della traversata. E
rivederli, foss’anche la centesima volta, è una gioia. In questi momenti mi
piacerebbe saper dipingere, per esprimere quello che provo: ma l’ho detto,
non so tenere in mano né matita né pennello. Li ritrovo, trasformati in
emozione pura, negli acquerelli di Carla. E’ proprio assurdo che io provi
un’affettuosa riconoscenza per chi lo fa per me? Resto sempre affascinata
davanti alla trasformazione del bianco della carta in neve, o in lontananza
di luce; davanti al miracolo (consueto fin che si vuole, ma pur sempre
miracolo, e ogni volta che avviene è come se avvenisse per la prima volta)
dell’arte che trasforma i colori del tubetto in una realtà più vera della
realtà.
Come quel magico angolo di giardino quasi incolto, subito riconoscibile
per noi che frequentiamo queste rive e di giardini così ne abbiamo visti
tanti: uno straordinario angolo denso di vegetazione, ma dove ogni pianta,
ogni colore, ogni massa nella fuga verso il muro sbieco è precisamente se
stessa, quasi botanicamente individuabile; si sente il caldo e il profumo
sfatto dell’estate. O l’altro, tutto invece solare, dove una sdraio accanto
alla balaustra aspetta chi si è appena alzato o sta per sedersi; il
mandarino cinese è una macchia di colore, dietro c'e un sospetto di mare e
le ombre sono piene della luce pomeridiana.
In una delle mostre più recenti, accanto ai paesaggi e ai gruppi di fiori
Carla ci ha sorpreso con alcuni splendidi ritratti, un exploit insolito per
chi usa la difficile tecnica dell’acquerello, che esclude i ripensamenti.
L’esito è felicissimo: in questi volti di bambini stupefatti, nel grido,
nello stupore del risveglio l’immediatezza del tocco è diventata uno
strumento per cogliere l’immediatezza dell’espressione. E c’è qualcosa di
più: guardate la giovane in abito da sera, fatta di tasselli azzurri al
limite dell’astratto.
Qualcosa di più emerge con impeto anche dalla recente esperienza di
Santorini. Colori nuovi, accesi, forse semplicemente greci (semplicemente?).
Il bianco del foglio si è fatto più abbagliante che mai, aggredito dai verdi
e dagli azzurri del mare, dalle forme asciugate dei fichi d’india,
dall’esplosione dei rosa e dei rossi. Il gatto selvatico, rincantucciato in
un angolo del foglio, da quale antichissimo canto è sbucato? Avrei voluto
essere con Carla a Santorini, mentre lo riprendeva, per vedere se subito
dopo non si sarebbe dissolto nell’aria; del resto, tutti i gatti, e specie
quelli greci e selvatici, hanno la capacità di dissolversi appena girato
l’angolo della casa, e di restare soltanto sul foglio disegnato.
Maria Pia Rosignoli
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